Segreti da Grand Tour
LA LEGGENDA
Si narra che …
…uno studente entrò, nel tardo pomeriggio, nella piccola chiesa abbandonata e, per caso grattò con
l’unghia la parete bianca.
I primi frammenti di intonaco che si staccarono dal muro misero a nudo una macchia di colore che attirò l’attenzione del giovane. Provò allora con una moneta o con un coltellino ( le versioni sono discordanti ) e dalla zona scrostata gli apparve una visione orrenda: un occhio lo fissava con una intensità inconsueta. La fuga scomposta del giovane mise a rumore il paese. Tanta gente accorse per capire e soprattutto per dire la propria opinione. Furono chiamati i professori della vicina università che, con una serie di indagini, scoprirono che, sotto il vecchio intonaco della chiesa, si nascondevano affreschi in numero così cospicuo da coprire ogni angolo del santuario.
Nel giro di qualche mese affiorarono figure di santi e scene bibliche, immagini
agresti e rappresentazioni dei mesi dell’anno ma, nella parete di destra, apparve
una forte e struggente danza macabra:
Una lunga fila di uomini e scheletri che si tenevano per mano
e dignitosamente si avvicinavano alla Grande Mietitrice.
Il coro:
“ Noi uomini, noi notai, noi papi, re e pezzenti, noi
belle donne, bambini e vecchi danziamo come
monito ad essere sempre pronti per l’ultimo viaggio “.
La la la-la la la-la la.
E’ della fine del quattrocento – Dissero gli studiosi.
E’ un capovaloro – disse la gente.
Furono dette tante cose.
Più volte, i giorni seguenti, la gente del paese vide il giovane entrare e uscire dalla chiesa con in volto il sorriso della soddisfazione poi, un mattino, la porta della chiesa fu trovata aperta e in un angolo della navata c’era un gran buco nel pavimento.
Qualcuno disse che lo studente aveva trovato un tesoro.
Tutti lo cercarono ma invano. Sparito nel nulla. Il resto fu solo chiacchiera di comari con eco da osteria. Fin qui la leggenda.
Due lettori vogliono dire la loro:
Anteo – Che strana leggenda, non trova ?
Birillo -Si. Piccola e scialba. Nessuno la metterebbe mai in un’opera. .
Anteo – Tutto questo non deve essere casuale.
Birillo – Certo che non lo è. Il caso non esiste, anzi, suggerirei di mettere un avviso
in tal senso, magari subito dopo la leggenda. Ci pensa Lei ?
Anteo – Lo consideri già fatto ma, perdoni la domanda, perché Lei si fa chiamare.
Birillo ?
Birillo – Per essere sottovalutato.
Nulla è casuale
La storia e la cronaca
Le indagini riuscirono, in tempi brevi, a dare un’identità al giovane. Furono diffuse le sole iniziali: F M. Si disse che si trattava di uno straniero che conosceva bene la lingua del posto.
La grande sorpresa fu apprendere che forse non si trattava di uno studente o, meglio, non era solo uno studente. F M era infatti insignito di una laurea in studi canonici con una specifica tesi sui rapporti tra filosofia e religione. L’unico elemento che risultava contrastare con questa teoria era l’età del giovane. Troppo giovane; era parso a tutti troppo giovane per essere l’attempato professore universitario del quale le autorità sospettavano.
Qualcuno sospettò che il giovane delinquente avesse preso il posto del professore per meglio porre in atto il suo piano e, visto che il Professore non era reperibile da tempo, si pensò anche al peggio. Il tutto fu condito da numerose testimonianze di paesani che ora ricordavano di aver visto il giovane aggirarsi per circa un mese intorno alla chiesa e tutti furono convinti della premeditazione: Lo studente cercava qualcosa, l’aveva trovata ed era fuggito.
Quando sembrò che la vicenda cominciasse a dipanarsi le indagini furono interrotte per una ragione molto banale ma efficace:
Gli esperti della sovrintendenza certificarono senza ombra di dubbio che il foro nel pavimento della chiesa era stato fatto dai loro stessi operai su loro ordine e che nulla, con certezza, era stato asportato. Nessun crimine, nessuna indagine.
Nulla era successo e tutti dimenticarono.
La verità fu che lo studente-professore aveva veramente trovato un immenso tesoro,
lo aveva portato con se ma lo aveva lasciato nella chiesa.
Mettiamo ordine.
La chiesa oggetto di questa storia ha diverse particolarità. Innanzitutto è una chiesa fortificata.
Ad un primo ragionare si potrebbe ipotizzare che le mura dalle quali è circondata siano state erette a difesa della fede. Ma in questa terra non sono mai passati gli infedeli.
Si potrebbe anche pensare che siano state erette a protezione di quegli affreschi. Plausibile, se non fosse che sicuramente le mura furono erette prima della esecuzione degli affreschi.
La verità è che quelle mura servirono per uno scopo che nulla aveva a che vedere con l’arte e con la fede. Servirono per uno scopo ignobile e lo scriviamo grande:
Le mura servirono per uno scopo ignobile.
Era il tempo della peste
( Anche il ricco signore ha facoltà di parola e questo è il suo racconto )
“ Lo sai cosa significò la peste ? Che ti morivano affianco come le mosche. Che in qualche giorno potevi scomparire o rimanere solo al mondo. E non c’era niente da fare. Niente. Al popolo potevi far credere quello che volevi: -Che le autorità avrebbero posto rimedio, che c’era un certo unguento che faceva miracoli, che stava per arrivare un predicatore da un altro paese e avrebbe fatto miracoli. Ma noi non eravamo così ignoranti da credere alle favole. Niente da fare. Non c’era niente da fare. E allora chiedemmo aiuto all’unica forza che conoscessimo: Il danaro.
Scappa nella chiesa, costruiscile intorno delle grosse mura, portati viveri, soldi, amici. Portati donne, vino e tutto il danaro che puoi. Spranga la porta, mettici a difesa degli armigeri prezzolati, tieni fuori i pezzenti con le loro folli speranze e aspetta. Mettiti la cera nelle orecchie e non udire le loro richieste di aiuto. Nessuno può salvarli e poi se avesse voluto li avrebbe salvati Dio. Tieni fuori i pezzenti. Salva la pelle. Non facemmo un grande peccato. E nell’attesa della vita o della morte goditi questi ultimi brandelli di vita e aspetta. Non facemmo grande peccato. “
I Signori si salvarono.
Fuori fu l’inferno ma quelle mura tennero fuori i pezzenti e la loro peste.
Qualche mese dopo la peste finì. I sopravvissuti, e furono pochissimi, contenti di essere scampati alla morte ricordarono con tristezza chi non ce l’aveva fatta.
Anche i signori che si erano rifugiati nella chiesa fortificata ritornarono alle loro case.
Alla chiesa fu assegnato un nuovo prete, quello vecchio era morto, e un giovedì mattina, Cristoforo, pare fosse questo il suo nome, si arrampicò sul colle dove essa sorgeva.
Dolore, tristezza e una grande rabbia. Ovunque c’erano i segni di ciò che era avvenuto in quel tempio. Le pareti erano tutte imbrattate da disegni e frasi oscene, la paura della morte aveva trasformato quei signori in terribili peccatori. Avevano sentito il bisogno di documentare e osannare le loro turpi gesta forse come affermazione di vita o forse come sfidati dalla santità del posto.
– Un’ode al demonio – disse il prete.
Cristoforo non resistette a lungo, decise che andava tutto cancellato ma non con una semplice vernice. Andava ridipinto con qualcosa di sacro, di puro e che fosse forte.
Un affresco che fosse grande, che coprisse ogni angolo della chiesa e che ricordasse la fatuità e la precarietà della vita terrena. Che quel colore entrasse nell’intonaco ancora fresco e rimanesse…
Ci voleva un bravo pittore.
Vincenzo e Giovanni
erano padre e figlio ma erano anche due pittori e vivevano nella città vicina. Di loro si dicevano che fossero tipi strambi ma che erano bravi. Che pur vivendo nello stesso paese e addirittura nella stessa casa, facessero vita separata tanto che nessuno li aveva mai visti insieme. Che avessero la stessa felice mano nel dipingere tanto da non poter distinguere l’opera del padre da quella del figlio. Si diceva anche che non fossero proprio moralmente irreprensibili ma erano bravi. Cristoforo raggiunse la loro casa con in tasca la piccola dote che la Diocesi gli aveva assegnata. Si era proposto di affidare il lavoro a Vincenzo, il padre. Sarebbe stato più facile, pensava, convincere una persona matura con argomenti che non erano certo i soldi. E invece trovò Giovanni. Chiese di Vincenzo, ma il figlio Giovanni ignorava dove fosse.
Lo attese per due giorni poi si arrese. Avrebbe parlato con Giovanni, in fondo dicevano che avesse la stessa mano del genitore. Fu faticoso parlare con il ragazzetto.
Un estenuante tiraemolla su ogni aspetto dell’opera: sui tempi, sui contenuti, sul prezzo, sul vitto, l’alloggio, il vino extra e soprattutto sul compenso.
Quando Cristoforo, ormai distrutto da una trattativa che sembrava non avere sbocco si alzò per congedarsi, Giovanni disse: Ho capito che ti serve una opera molto santa.
Se mi fai fare di testa mia io accetto. Ma non entrerai in chiesa fino a quando non avrò finito. E se alla fine non sarai contento potrai anche non pagarmi.
E poi voglio doppia razione di vino e anche…
Accetto, accetto – disse concitato il prete, preoccupato che il pittore ricominciasse ad aggiungere richieste. Mesi di discussioni, di abbandoni e di ritorni, di ricerche nelle osterie del paese e nelle case di compiacenti paesane. Chili e chili di vernice, litri e litri di vino. I rapporti tra Cristoforo e Giovanni furono a dir poco pessimi almeno fino al giorno in cui il prete entrò in chiesa deciso a mandare via il pittore.
– Adesso basta. La misura è… La frase gli si strozzò in gola.Il prete era al centro della chiesa e roteava il capo come stordito.
Era al centro dell’opera e correva con lo sguardo di viso in viso sulla gran folla delle figure che lo circondavano. Un capolavoro.
Esattamente quello che gli serviva. Anzi meglio di quanto avesse sperato. Giovanni si alzò dal giaciglio: – Non avresti dovuto entrare. Erano questi i patti.
– Ma hai finito.
– Non ancora.- si chinò nell’angolo a sinistra dell’altare e mise la firma: ora è finito.
Se mi dici che non ti piace ti bastono a sangue.
Non furono le minacce a convincere Cristoforo: – E’ una grande opera. Sei stato bravissimo. Il giorno dopo si abbracciarono sulla soglia della chiesa. Giovanni partiva
– Custodisci quest’opera, prete, ci sono tante cose importanti in quel colore. Difendile.
Nessuno dei due poteva sapere quale altra offesa si stesse preparando per quel santuario.
– Accadde che la notizia della chiesa affrescata facesse subito il giro del
popolo di Dio.
– Accadde che la notizia raggiungesse anche qualcuno dei Signori che in
quella chiesa avevano fatto di tutto fuori che pregare.
– Accadde che qualche altro Signore credesse di riconoscere addirittura il proprio viso nella
lugubre sfilata della danza macabra e se ne lamentasse con il Vescovo.
– Accadde che anche il Vescovo credesse di riconoscere la propria faccia nella figura dipinta
con abiti religiosi.
– Accadde che Padre Cristoforo fosse, lodato e trasferito ad altro e più prestigioso incarico.
– Accadde che al nuovo prete della chiesa il Vescovo facesse pressioni perché
cancellasse quelle figure così fosche, che inspiravano pensieri così tristi per una chiesa che doveva essere la casa della gioia, che erano state dipinte da un pittore che era quasi un senzaDio e che bisognava stare in guardia dal pericolo dell’eresia e che insomma gli ordini del proprio Vescovo non andavano discussi.
Il racconto del nuovo prete
“ Disappunto e tristezza, ma io non ho avuto il coraggio di cancellarli quegli affreschi. Decisi, ma fu l’unica volta della vita mia, di disobbedire al mio Vescovo. Non li cancellai, li ricoprii di un pesante intonaco, nove pesantissime mani di calce, e li affidai al destino che è sempre nelle mani di Dio. Se Lui avesse voluto, un giorno qualcuno li avrebbe ritrovati, altrimenti Amen. “
Era l’anno 1492, giorno di Sant’Erasmo.
Questi due li conosciamo già. ( sono quelli del: “nulla è casuale” )
Anteo – Nessun nome, nessuna data, nessuna localizzazione geografica.
Questa storia vuol farci credere di non avere alcun riferimento con
la realtà. Ma si capisce che l’autore è stato ben attento a cancellare
ogni traccia.
Birillo – Finalmente se ne è accorto. Qualcuno ci suggerisce di raggiungere
una meta ma vuole anche assicurarsi che lo si faccia senza
scorciatoie, senza furbizie. Insomma vuole sbarrare la strada ai
furbi e ai coglioni.
Anteo – Gustosa utopia.
Birillo – D’accordo ma abbassi la voce. Si ricordi che dovremmo essere
dall’altra parte del foglio, qui siamo ospiti.
Fate attenzione, per favore altrimenti dovrete rileggere tutto.
Il professore arrivò in paese nel pomeriggio.
– La sistemo nella stanza n. 54, ultimo piano. Vista mare. Si troverà benissimo.
– Grazie.
Il portiere fece per prendere il bagaglio ma il Professore fu lesto a difendere la sua cartella nera e allora si dovette accontentare di trasportare solo la valigia azzurra.
– Ecco questa è la stanza.
E apriva lentamente le persiane grigie controllando attentamente le reazioni del cliente. Lo faceva ogni volta che dava in affitto le camere dell’ultimo piano.
Le persiane si schiudevano lentamente e una visione infinita di mare precipitava nella stanza. Eccola l’espressione che attendeva. Un tuffo al cuore che passava dagli occhi del cliente. Anche questo era sistemato.
– Bello, vero ?
– Magnifico, veramente magnifico.
Il Professore, rimasto solo nella stanza, portò una sedia sul balconcino e si accomodò. Mare, mare, mare.
Difficile dire quanto si trattenne a contemplare lo spettacolo. Verso il tramonto uscì con la sua cartella nera.
– Certo Signore. Proprio qui, dietro l’hotel, ci sono una serie di ristoranti. Sul lungomare. Se non li ha mai mangiati le consiglio di assaggiare i calamari alla griglia, sono la specialità del posto.
Tutto bene, pensava il Professore. Tutto come previsto.
1) L’hotel aveva lo stesso nome del paese,
2) la stanza aveva una veduta splendida,
3) la specialità del posto erano i calamari alla griglia.
Tutto come previsto, la strada sembrava quella giusta. Ora doveva controllare il vino.
– Come vino le consiglierei una Malvasia fredda – diceva il portiere.
Perfetto, pensò il Professore, non devo affrettare il giudizio ma tutto sembra combaciare.
4) Anche la Malvasia fredda.
Mangiò lentamente, assaporando e gustando il piatto di calamari che trovò veramente ottimo. Terminò con una crèpe all’altezza delle migliori creperies di Montparnasse e chiuse con il famoso, a ragione, distillato di frutta.
Aveva rifiutato il caffé, le informazioni lo davano come pessimo e quindi da evitare. Pagava un prezzo sorprendentemente basso rispetto all’alta qualità di ciò che gli era stato servito e s’incamminava, con qualche emozione, verso la piazza.
Poca gente tranquilla, qualche viaggiatore attento. Passeggiava per le stradine del paese accompagnato da una dolcissima musica che ad ogni angolo cambiava. La spiegazione era che in quel paese, come eredità di un famoso musicista, ci sono tante scuole musicali, tanti maestri e per tutto il pomeriggio e la sera, aggirandoti per le strade puoi ascoltare esercizi, saggi, lezioni.
E se ci passi più volte puoi sentirne i progressi o riconoscere la mano felice dell’allievo. Prima dell’ultima svolta, e dell’ultima musica che l’avrebbe portato nel cuore del paese si fermò a pensare: se la piazza porta il nome del grande compositore e violinista allora ci sono e, alzando lo sguardo, vedrò la grande chiesa.
5) -Ci sono. La piazza è dedicata al grande violinista, al suo figlio più illustre. Ora devo solo avere il coraggio di alzare lo sguardo. Dai. Alza la testa, dovrebbe esserci.
6) C’era. Sulla collina, bella e maestosa. Eccola. La chiesa in alto.
– E ora, se possibile, pensò, devo tirare il freno. Devo rallentare.
“ Flaner “: un vocabolo francese che esprime perfettamente un concetto inesprimibile. “ Andare a zonzo, gironzolare, girovagare ma stando attenti a cogliere tutto quello che si dovesse presentare. Divagare con animo ben disposto e cosciente “.
Il Professore cominciò a “ flaner “. Una volta resosi conto che era sulla buona strada gli venne spontaneo rallentare il tempo.
Passeggiava, osservava, era curioso di tutto. Affittò una casetta sulla collina, faceva la spesa nel mercatino di fianco la piazza,
– Professore, oggi ho i peperoni come piacciono a Lei.
Passeggiava ogni giorno tra il bar della piazza,
7) che era anche una bellissima galleria d’arte,
8 ) e il teatro che era proprio sul mare.
– Professore buongiorno. Bella giornata, non trova ?
Viveva sereno leggendo il giornale, conversando con i pescatori, scambiando ricette e inviti a cena con gli abitanti del posto.
– Troppo aglio, signora. Ecco perché il piatto non le viene. Facciamo così, sabato venite a casa mia così vedrete di persona mentre lo preparo. E portate i bambini che non è mai troppo presto per imparare.
A poco alla volta era diventato uno di loro, partecipava alla vita del paese e solo ad una attenta osservazione esterna, ma solo esterna, si poteva azzardare che era trascorso tanto tempo dal giorno del suo arrivo.
Una mattina, chissà perché, tirò fuori dall’armadio la cartella nera, raggiunse il tavolino del solito bar e la aprì.
Aprì il libro e verificò le cose che sapeva già, poi si disse che poteva andare avanti.
9) – Nella piazza del paese ci dovrebbe essere la casa del grande violinista italiano, il grande compositore di musica strumentale del settecento.
Esatto. E’ ora di andarla a visitare.
Una simpatica signora lo fece accomodare nella stanza dove erano custoditi parecchi reperti.
10) C’era esposto un violino preziosissimo. Un Abati. Si guardò intorno alla ricerca degli studi di geometria dei quali si dilettava il Maestro.
Li trovò. Due volumi scritti a mano con calligrafia minutissima e precisa.
“ Studio del rapporto tra diametro e circonferenza “ e “ Armonia del cerchio Platonico “. Era meraviglioso procedere lentamente per una strada che era sicuramente giusta. Ascoltava la signora bionda che gli raccontava del Maestro, del fatto che un giorno, da religioso qual era, si spogliasse in tutta fretta dell’abito talare per sposarsi e di come il Vescovo non lo avesse mai perdonato per questa virata repentina.
Non gli perdonava neanche la fugace relazione con la figlia del cocchiere e neppure quella con la gran dama della città, e si che aveva ancora l’abito talare indosso.
E il Vescovo non poteva sopportare neppure tutte quelle storie sul diavolo che, in sogno, gli ispirava la musica, come in quella notte del 1713.
– Oddìo il Maestro non era responsabile di quelle voci messe in giro ma il Vescovo lo
accusava di non fare molto per smentirle.
Gli narrava di come il Maestro non avesse, oggi, degli eredi ma che…
– Un mese prima si è presentata dall’Argentina una signora che aveva lo stesso cognome del Maestro.
Gli parlò del violino Abati, splendida macchina per generare suoni, di come parlasse, di come si addormentasse nei periodi nei quali non veniva suonato e soffriva nella teca. Perché…
– Gli strumenti musicali, e soprattutto i violini, soffrono se non sono suonati.
Usciva soddisfatto dalla visita, aveva raccolto tutti gli elementi che gli servivano, si ritrovava nella piazza e alzava lo sguardo verso la grande chiesa.
– Uno di questi giorni la vado a visitare così capirò perché è così facile entrare in quella
chiesa e così difficile uscirne.
Poi un salto al bar-galleria per appuntarsi su un notes, a sinistra, i segni che aveva controllato e che gli davano la sicurezza di procedere sulla buona strada e, sulla destra, gli elementi che lo portavano alla nuova tappa del viaggio.
– Ma non c’è fretta, non è il caso di pregiudicare tutto, devo rallentare ancora.
Questo pensava il Professore mentre richiudeva il libro e lo riponeva nella cartella nera.
Poi venne ripreso dalle consuete piacevoli attività che in quel posto erano una regola di vita.
Tempo dopo ( ma quanto dopo ? ) in un giorno di sole, decise di salire a visitare la grande chiesa.
Era in restauro ma le parti visibili come il tetto, l’organo e varie statue, davano testimonianza di un passato importante. Alle pareti targhe commemorative di imperatori e papi. C’era proprio tanta Europa in quella chiesa. Una visita piacevole che si protrasse per qualche tempo.
Ogni volta che il Professore si avvicinava all’uscita c’era qualche motivo di interesse che attirava la sua attenzione e rimandava a tempi successivi l’uscita e quindi la risposta al quesito: Per quale motivo in questa chiesa è facile entrare e difficile uscire ? Poi, alla fine, decise di avviarsi verso la porta. Cerano poche persone ma quelle poche, per una ragione misteriosa, non riuscivano ad imboccare la porta e si accalcavano.
– Permesso ?
– Scusi mi fa passare ?
– Permette ?
Niente da fare, non si riusciva ad uscire.
– Ma perché non si riesce ad… – si bloccò il pensiero quando fu il suo turno e si trovò sulla
soglia. Dio che colore, che cosa grande.
Bloccato sulla soglia osservava una muraglia di colore blù.
Il racconto di Stradaioli, ricercatore di Fisica ottica.
“Per un noto effetto ottico, più si sale sull’orizzonte più esso si innalza. Ma ciò capita fino ad un certo punto, dopo, superato un limite critico, la visione passa sotto di voi, come quando si vola. C’è un solo punto dove l’orizzonte è alla sua massima altezza, massima ampiezza, massimo colore. “
E quella chiesa è posta proprio in quel punto.
– Permesso? Mi fa uscire ?
Erano le voci dietro di lui. Era il suo turno di ostruire l’uscita e chissà da quanto tempo lo stava facendo. Capì che in quella situazione si perdeva la cognizione del tempo.
La persona che osservava la muraglia di blù dava solo un’occhiata ma chi stava dietro di lei aspettava per interi quarti d’ora.
Gli venne da sorridere, era un piccolo esercizio per sfasare lo scorrere del tempo.
Ne fu contento.
Le informazioni in suo possesso continuavano ad essere esatte e tutto lasciava prevedere, con le dovute cautele, che lo avrebbero condotto per la strada giusta fino a fargli ottenere l’impensabile tesoro che promettevano.
Sarebbe stato tutto vero o si sarebbero rivelati degli irraggiungibili sogni da bambino ?
– I miei sogni da bambino – pensò il Professore – che il tempo si fermi mentre faccio un giro in giostra o anche quella volta che mangiavo un gelato buonissimo ed ero con mio nonno. E il grande amore che non deve finire – fermati tempo – e quel viaggio che non doveva finire – e poi, perché no, la vita che non deve finire. A dire il vero sembravano qualcosa in più di sogni. A lui bambino, a volte sembrava veramente che il tempo si fermasse, che gli fosse concesso più tempo per fare cose.
Era sera, si avvicinava l’ora di cena e non aveva ancora completato i compiti di scuola ?
Si fermava un attimo, rallentava per così dire i gesti e i pensieri e, facendo le cose con molta calma, si accorgeva che ne poteva fare di più, che ce ne entravano di più in quella porzione di tempo.
E così per il compito in classe o per l’autobus che ti stava sfuggendo da sotto il naso.
Al Professore sembrava che questa forma di rallentamento temporale, se mai ci fosse stata, fosse conseguenza di quel certo suo comportamento ma non riusciva a capire bene quali fossero le caratteristiche di questo suo agire e, soprattutto perché solo a volte avvertisse la sensazione di avere più tempo, di poter fare più cose.
Ricordava il Professore, come il pudore gli avesse sempre impedito di comunicare o solo accennare ad altri queste fantasticherie fino a costringerlo a nasconderle.
Ma una sera, a teatro, successe qualcosa che doveva mutargli radicalmente la vita. In programma c’era una commedia: “ La scala “ e, nella finzione, scenica si ipotizzava che un professore di filosofia inventasse una serie di esercizi chiamati : “ Esercizi del sentimento “.
Esercizi che se messi in pratica, si diceva, avevano l’effetto di far provare un sentimento in maniera molto forte. Tra questi c’erano gli esercizi della banconota e delle candele. La tesi di questi esercizi parve al Professore talmente familiare, talmente vicina al suo modo di essere, che, ad un certo punto ebbe l’impressione che l’attore fosse completamente assorbito dal personaggio, che fosse diventato veramente il Professore di filosofia che voleva interpretare e, cosa bizzarra, che non si rivolgesse più all’intero pubblico ma solo a lui e, per giunta, guardandolo intensamente negli occhi.
Uscì turbato dal teatro e con la convinzione che quei suoi sogni potevano meritare un approfondimento.
Fu un pensiero che rimase tale. Assorbito da mille e frenetiche corse della vita quotidiana, mise da parte quel proposito fino al giorno che, tra i documenti che provenivano dalla copisteria, trovò dei fogli, tre facciate in tutto, che, con tono molto scientifico, citavano alcuni
“ Esercizi del Sentimento “ e ne assicuravano la perfetta funzionalità.
Scorse avidamente quelle pagine fino alle ultime righe dell’ultima pagina dove cominciava una dissertazione sul funzionamento dell’esercizio denominato: “Freno Temporale”. Ma la dissertazione si perdeva con l’ultima riga della terza pagina e al Professore non rimaneva che tentare approssimative e infruttuose indagini presso la copisteria. Qualcuno, forse di passaggio, aveva lasciato inavvertitamente quelle copie. Tutto qui.
Nella testa del Professore ormai non c’era più un seme ma una piccola pianticella che chiedeva con insistenza di essere nutrita.
Ricerche, ricerche, in fondo era il suo mestiere. Non era forse un ricercatore universitario ? E col tempo il suo notes nero cominciò a riempirsi di…
Di che cosa ? Chiamiamoli elementi. Si rafforzava nel Professore l’idea di non essere più solo con quei sogni.
C’erano sicuramente altre persone su quella strada.
Aveva trovato tracce di qualche compagno di viaggio e, col tempo si era anche accorto che loro, i compagni di viaggio, non avevano mai parlato, nei loro appunti, di sogni. Ne parlavano come di cose vere da conquistare magari con pazienza e perseveranza ma, per loro, erano cose reali.
* * *
Scetticismo nei primi tempi.
La sua impostazione positivista prima fece a pugni con quelle “ frottole “ poi ne rispettò la
“ stravaganza “ e infine si disse che la sua cultura elastica doveva “ mettersi alla prova “ ed era partito con la sola guida di un mazzetto di fogli cuciti insieme col cotone alla vecchia maniera.
Pagine con informazioni raccattate da mille rivoli ed ora messe insieme da una rilegatura quasi rinascimentale e da una logica che forse era esatta o forse solo una follia.
Ecco perché, in un mattino di Giugno, era lì.
Ma il motivo determinante, quello per il quale aveva veramente deciso di prestare fede a tutta questa storia era che il libricino aveva fatto al professore una prima grande promessa e l’aveva mantenuta.
Succedeva infatti che tra le carte del Professore c’era un’esplicita promessa, a dire il vero molto impegnativa. Per allettare il viaggiatore, per togliergli ogni dubbio sulla veridicità della cosa gli si prometteva un grande regalo. Gli si prometteva di svelargli quello che per secoli era stato chiamato il passaggio del Templare.
Sin dai tempi antichi si era favoleggiato che, nella costruzione di tutte le cattedrali gotiche, fosse stato inserito un passaggio segreto ma che nessuno lo avesse mai trovato o che nessuno aveva mai ammesso di averlo trovato. Una sorta di vezzo, di sfida del costruttore. Ora gli scritti promettevano di rivelargli il passaggio segreto di una delle più grandi e belle cattedrali del mondo. Poteva il Professore esimersi dal controllare ?
Poteva rimanere col dubbio che fosse tutto falso ?
Fece quello che qualsiasi vero viaggiatore dovrebbe fare: Partì.
Puoi partire anche tu. Tranquillo, è solo una metafora,
per ora.
Era fatta. Ora era sicuro di quello che faceva. Il professore partiva per la città del grande musicista deciso a trovare la chiesa fortificata e il suo segreto.
I soliti due lettori non resistono alla tentazione di dire
la propria opinione. Ma la tua qual è ?
Anteo – Ma questo fa sul serio ?
Birillo – Basta controllare no ?
Anteo – Lei vorrebbe farmi credere che se io vado in quella cattedrale trovo
il passaggio e…
Birillo – Calma, calma. Mettiamoci nei panni del Professore.
Se lei andasse in quella cattedrale, proprio in quella grande
e famosissima cattedrale e seguendo le istruzioni riuscisse a entrare
nel passaggio segreto comincerebbe a credere a questa storia ?
Anteo – Se veramente riuscissi a trovare un passaggio segreto a tutti
o perlomeno custodito in maniera gelosissima, proprio in
quella cattedrale lì, allora vedrei tutto sotto un’altra luce.
Birillo – Allora non ha che attendere, con calma. Se ho intuito bene le si
sta preparando una sorpresa. Una grande sorpresa.
A proposito può aggiungere in chiusura di questo nostro intervento
il cartello che ho preparato ?
Anteo – D’accordo. Metto il cartello e mi preparo ad aspettare.
Non è la morte opprimente ma le terribili possibilità della vita.
Ma adesso era nella città del musicista, convinto o quasi.
– Finora tutto funziona – si disse tirandosi fuori dai quei pensieri – quindi il viaggio continua e uno di questi giorni vado a cercare la chiesa fortificata.
Quanto tempo passò a flaner nella zona non lo seppe mai nessuno e, meno che mai il Professore ma, un giorno, sentì che era venuto il momento di fare il passo più importante del viaggio. Avrebbe cercato la chiesa fortificata e si sarebbe impossessato del grandissimo tesoro che gli era stato promesso da quel libro.
Ritirò fuori dalla cartella il libretto e partì alla ricerca o, forse, solo per fare una passeggiata nei dintorni.
Le indicazioni dei fogli non erano chiarissime ma, diamine, una chiesa fortificata non può passare inosservata.
Dimenticava il Professore che ormai quel lento andazzo del viaggiare ormai ce l’aveva nell’anima e quindi si fermava ogni volta che incontrava qualcosa che colpisse il suo interesse. Si fermava a visitare alberi, borghi, boschi, cascate, e così via percorrendo tutto l’alfabeto dei suoi interessi fino alla zeta di….zinco-zirconio-zuppa ecc.ecc.
Ogni po’ di giorni, ma quanti non si sa, si concedeva di salire su di un cucuzzolo qualsiasi e scrutava l’orizzonte alla ricerca della chiesa.
Tutte le volte che ridiscendeva a valle senza averla trovata pensava che comunque, in quel giorno, aveva trovato tante altre cose e che quel momentaneo insuccesso era gradevole perché gli avrebbe procurato un altro giorno ricco di belle cose da trovare.
Di più non faceva, lui pensava che in fondo anche le cose si dovevano dare da fare per venirci incontro e così fu.
Un giorno, a circa 22 kilometri in linea d’aria dal paese del violinista, la vide di lontano e la riconobbe.
Era quella ne fu sicuro.
11) La chiesa era poco fuori il piccolo paese. Il cancello era aperto. Una chiesa microscopica circondata da mura poderose. A difendere il tesoro, pensò il Professore.
Entrò con rispetto e carico di aspettative ma dopo qualche minuto, guardandosi intorno, pensò che la cosa si presentava più difficile del previsto.
La chiesa era vuota, solo qualche misero arredo e quell’affresco totale che esaminò con cura, Osservò, toccò, annusò e rifece tutte queste operazioni un paio di volte.
Poi ritoccò, riannusò, e riosservò ancora. Non era possibile che i fogli si sbagliassero. Non potevano, proprio adesso. Ma se il tesoro fosse stato portato via? Come potevano, quei fogli essere così sicuri che il tesoro non poteva essere portato via ? Esaminò il pavimento, sembrava tutto in ordine, nessun segno di scavi recenti e poi le pareti.
12) Esaminò con cura quell’immenso affresco e capì.
Ecco, forse era questa la spiegazione. Il tesoro non poteva essere portato via perché era un affresco. Rimaneva però un altro mistero. Il libro parlava chiaramente che bisognava impossessarsi del tesoro. Come era possibile portare via un affresco e al tempo stesso lasciarlo lì ?
Ci pensò un poco e poi concluse che non era l’affresco che doveva portare via ma l’informazione che era contenuta nell’affresco. Il tesoro consisteva, forse, in una preziosissima informazione. Con questa teoria tutto tornava a posto.
Ci si può impossessare di un’informazione e, nello stesso tempo, lasciarla sul posto a disposizione di altri.
Doveva riflettere.
Forse le riflessioni del Professore furono veloci o forse no o ancora furono lentissime. Il professore non se ne dette pena. Rimase al suo paese a condurre la vita di sempre e a passeggiare sul lungomare tra il caffè-galleria e il teatro sul mare.
Ma cosa aveva visto il Professore all’interno di quella chiesa ?
Semplicemente uno spettacolo da mozzare il fiato.
13) Sulla parete di destra undici scheletri a grandezza naturale conducevano per mano undici umani verso una fossa aperta custodita dalla morte. Bambini, prelati, ricchi, poveri, belledonne, tutti condotti verso lo stesso destino.
Ma tutta la chiesa era coperta di affreschi anche se non così forti come la danza macabra. Scene agresti e bibliche, rappresentazioni di stagioni e di santi. Un tripudio di visi, colori e significati da far perdere la testa a chiunque, o meglio, a chiunque non sapesse dove guardare. E il Professore sapeva o, perlomeno, intuiva dove avrebbe dovuto guardare.
Un giorno si rese conto che non poteva ulteriormente frenare l’accadere dei fatti. Essi incalzavano. Sarebbe andato a vedere la chiesa, si sarebbe impossessato del tesoro e sarebbe sicuramente andato via da quel posto dove aveva trascorso i mesi…gli anni…un tempo molto felice.
Quindi, prima di ritornare alla chiesa fortificata, tanto valeva stare ancora un po’ in paese. E così fece.
– Professore, ho saputo che sta per lasciarci ?
– Si, parto tra qualche giorno.
– Il paese senza di lei non sarà più lo stesso. Ma anche lei si è trovato bene. Si vede che è stato bene, ogni giorno che passa sembra sempre più giovane.
– Troppo buona signora Maria, le sue minestre mi mancheranno molto.
Qualche passo sul lungomare e…
– Federico, ma è vero che stai per partire ?
– Si, ma ritorno. Sto via qualche tempo, poi ritorno.
– Non ti sarai mica fidanzato con qualche ragazza della città ?
– Ma che dici ? Alla mia età ?
– Si, si, dici bene tu. Ma un giovanotto come te…
– E smettila. Piuttosto impara a giocare a scacchi che quando torno te le suono.
Al bar.
– Se te ne vai e non ti ricordi di noi me la prendo sul serio.
– Ma no, come farei a dimenticarmi, io qui sono stato proprio bene. E salutami anche i bambini…
– Si, i bambini, come li chiami tu, sono tutti e due all’università e tornano tra quindici giorni.
– Accidenti. Vuoi dirmi che ci siamo invecchiati ?
– Io forse si, tu sei il solito ragazzino dispettoso. Stavi così bene qui e adesso ti sei messo in testa di viaggiare…
Venne il giorno di ritornare alla chiesa fortificata e di prendere quanto lo scritto prometteva.
Il Professore, da quel libricino, aveva imparato molte cose che erano ignorate dagli altri studiosi.
Prima di tutto sapeva che La danza Macabra era uno specchietto per le allodole.
Messa lì sulla parete della navata di destra ad attrarre l’attenzione e, soprattutto, ad allontanare l’attenzione da altre parti della chiesa.
Tutti, entrando nella chiesa, venivano attratti dalla forza terribile della danza. Credevano di assistere ad uno spettacolo forte mentre alle loro spalle, o meglio,
14) sulle loro teste, ignoravano uno spettacolo ancora più grande e tremendo.
Il libro parlava chiaro. Era all’affresco che rappresentava lo scorrere del tempo che bisognava guardare, che bisognava guardare sforzandosi di non vedere la danza degli scheletri.
Lì, Giovanni aveva dipinto la sua formula per..( adesso lo devo proprio dire ) per… rallentare il tempo.
Per rallentarlo non per fermarlo.
E questo era il tesoro che le carte promettevano.
Il freno temporale.
Come si poteva credere ad una follia del genere ?
Ma come non crederci se quella stessa guida portava prove inoppugnabili del fatto che Vincenzo e Giovanni, gli autori dell’affresco, erano la stessa
persona ?
O, meglio, Giovanni non era mai esistito. Era sempre Vincenzo a dipingere e a frenare il tempo fino ad essere costretto ad assumere le vesti di un ipotetico figlio.
– Mai visti insieme, mai lavorato insieme – si era sempre detto in paese.
E lo credo.
– Avevano la stessa mano felice nel dipingere.
E lo credo.
Comunque il Professore non era mai stato propenso a bere qualsiasi favoletta.
Era in quella chiesa per impossessarsi di questa formula ma anche perché il libricino sinora aveva sempre mantenuto quello che aveva promesso.
Osservò attentamente l’affresco dei santi e soprattutto quello della santa sconosciuta. Poi si pose da un lato e alzò la testa.
15) Esaminò con molta cura l’affresco dei mesi, e capì.
Rivolse infatti lo sguardo ai soffitti delle due piccole navate laterali. Lì Giovanni aveva preparato tante cornici rotonde. Nella prima c’era Gennaio con tutti i lavori della terra tipici di quel mese, nella seconda cornice c’era Febbraio, anch’esso con i lavori agresti di quel periodo, e poi Marzo e così via. Nella dodicesima cornice naturalmente c’era Dicembre. Il Professore osservò a lungo le due navate, tutte le cornici e le figure in esse contenute. Osservò e capì. Contento, euforico seppe di possedere quel tesoro e, per l’ultima volta ritornò in paese per fare i bagagli. Ora si doveva sbrigare. Le allusioni alla sua giovane età diventavano ogni giorno più numerosi e pressanti. Era necessario partire.
E se partissi anche tu ? E se tutta questa storia fosse vera
e ti bastasse solo ripetere quanto ha fatto il Professore ? Pensaci. Se solo per un momento ti è venuta voglia di fare questo viaggio, se solo per un attimo hai creduto che questa storia fosse vera ….
E buon viaggio. Dimenticavo, la storia è vera.